Dopo il boom del biologico, quello del cibo che segue le regole della religione ebraica. Negli Usa la domanda di prodotti “conformi” cresce a ritmi vertiginosi, in Italia è agli inizi. Tra qualità e business.
C’è la lattuga da lavare foglia per foglia e la farina da setacciare per evitare la presenza di piccoli insetti. C’è la carne che deve arrivare da animali perfettamente sani e ci sono le uova da passare sotto un laser per essere certi che non contengano neppure una traccia di sangue o altre impurità. E poi i prodotti industriali che non devono contenere grassi animali, o che sono parve, senza latte o latticini.
Sono regole religiose che gli ebrei applicano da millenni. Ma che, ormai, per molti consumatori si sono trasformate in un certificato di garanzia. Vegetariani, chi soffre di intolleranze alimentari o è solo attento a quello che viene indicato sulle confezioni. Detective con il carrello alla ricerca di quello che nascondono le piccole scritte o le sigle misteriose impresse sulle scatole, che vogliono essere sicuri che un succo di frutta contenga davvero frutta e che negli insaccati non ci sia latte perché, magari, non è obbligatorio segnalarlo. Negli Usa il cibo kosher (o kasher) - come viene chiamato da una parola yiddish che significa “adatto”, “conforme alle regole religiose” - è diventato sinonimo di sicurezza alimentare, un po’ come il bio o come i prodotti “all natural”, senza additivi e conservanti. E non solo per chi segue le prescrizioni della Torah. Quello americano è il mercato più esteso del mondo, continua a crescere del 15% all’anno, e gli ebrei rappresenterebbero soltanto il 20% degli acquirenti. La società di ricerche internazionale Mintel ha condotto un sondaggio: il 55% degli intervistati ha risposto di acquistare cibo kasher per avere una garanzia di sicurezza e un marchio salutare in più. Nel Global New Products database (GNPD) della società, poi, compaiono 14.300 nuovi prodotti - 740 quelli europei - usciti negli Usa e in Canada negli ultimi cinque anni. Soltanto nel 2007, la cifra è arrivata a 3.984, oltre a 728 bevande. Per questi prodotti, l’Orthodox Union, la più grande autorità di certificazione americana, sostiene che ogni anno negli Usa si spendono 150 miliardi di dollari. E qualcosa si sta muovendo anche in Italia. Tra nuovi negozi, ristoranti e importanti aziende che decidono di far autorizzare dai rabbini pasta, biscotti, gelati, formaggi, spezie.
Anche gli italiani scoprono il menu ortodosso
L’Eurispes lo definisce “fenomeno kosher”. Al cibo “adatto” l’istituto ha dedicato un capitolo dell’ultima ricerca sulle abitudini alimentari degli italiani. Che avrebbero iniziato a interessarsi ai prodotti con il marchio di un rabbino. E il motivo, proprio come negli Usa, sarebbe la maggiore fiducia che ispirano i rigorosi controlli religiosi.
Ne è convinta Irene Delaria, ricercatrice Eurispes: «L’aumento della richiesta di cibi kosher è legato alla ricerca estrema di sicurezza e qualità. Gli italiani fanno fatica a riempire il carrello a causa dell’aumento dei prezzi, ma se diminuisce la quantità, si punta sulla qualità. C’è poi un altro elemento da considerare. Sarà per l’effetto panico delle epidemie di mucca pazza e aviaria o per il bisogno di salvaguardare la propria salute, ma chi compra è sempre più orientato verso la scelta di cibi biologici. L’Italia si attesta tra i primi posti in Europa per l’acquisto di prodotti di origine controllata e protetta (l’84%) oltre che per i cibi senza Ogm (66%) e per i prodotti locali. In quest’ottica il kosher è visto come una garanzia ancora maggiore».
E le prove, secondo Eurispes, sono proprio tra le cifre: «Anche le aziende che nel nostro Paese decidono di farsi certificare kosher sono in crescita. Grandi realtà come Algida, Mulino Bianco o Pavesi, che pare sfiorino un fatturato di oltre 300 milioni di dollari, hanno linee dedicate. Poi c’è la carne, che può essere consumata anche dai musulmani». Gelati, aceto balsamico, latte, pelati, persino le caramelle. La lista della spesa supervisionata è lunga. Ma da Milano a Torino, da Firenze a Roma, dove è presente la comunità ebraica più grande d’Italia, sono sempre di più i ristoranti e i negozi. E i clienti che ormai si avvicinano alla tavola ebraica senza motivi religiosi. L’ultimo nato è Mk kosher, il fast food “adatto” più grande d’Europa: tre piani e 250 posti a sedere, ha aperto da pochi mesi vicino a Fontana di Trevi e, presto, potrebbe sbarcare anche a Milano. Qui, i menu tipici dei fast food possono essere consumati da ortodossi e, al posto dei tradizionali hamburger, si servono anche panini e piatti della cucina giudaico-romanesca: dal concia burger, a base di carne e zucchine alla concia, ai carciofi alla giudia, dai filetti di baccalà al panino con la cicoria e allo straccetti-sandwich. Perché, alla fine, le regole si sono mischiate nei millenni ai sapori dei diversi Paesi e la cucina, dal Medioriente all’Europa dell’Est, è fatta da ricette diversissime. «E chi viene da noi», racconta il direttore Massimo Patrizi, «per il 70% non è di religione ebraica. Il motivo? Credo che scelgano la nostra cucina anche per il modo in cui vengono trattati gli alimenti: tutto viene preparato e lavorato da noi e non deve passare soltanto il normale controllo sanitario, ma anche quello dell’ufficio rabbinico. Le verdure, per esempio, vengono lavate tutte con sale, bicarbonato o amuchina 7 o 8 volte e ci accertiamo della qualità».
La carne è uno degli alimenti più ricercati.
«Molti pediatri la consigliano per i bambini», dice Angelo Terracina, che a Roma gestisce un negozio di alimentari, un locale «dove a pranzo più della metà dei clienti non segue la religione ebraica» e produce vino tra le Marche e la Toscana con l’etichetta Galizianer. «Anche sul vino esiste un controllo completo da parte di tre rabbini diversi, dalla pigiatura fino all’etichettatura e all’imballo. Tutti i macchinari devono essere puliti perché non ci sia neppure l’eventualità che si mischino le uve e non è possibile aggiungere nessun’altra sostanza, a cominciare dai coloranti».
Le etichette parlano chiaro
Ma il cibo kosher è veramente più sicuro? Secondo Giorgio Calabrese, dietologo e rappresentante italiano dell’Authority Europea della Sicurezza Alimentare, la garanzia del cibo ebraico «Non è solo un’operazione di maquillage. Gli alimenti sono più controllati. Certo, la sicurezza al cento per cento non esiste, ma chi acquista un prodotto kosher sa cosa contiene». È un medico di professione anche il rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni. Che spiega: «Bisogna distinguere tra quantità e qualità, naturalmente. Per quanto kosher, se mangio un’intera tavoletta di cioccolata non fa certo bene. La sicurezza del nostro cibo è un’altra ed è assicurata dal fatto che all’interno di qualsiasi prodotto non sono presenti elementi diversi da quelli dichiarati. Per essere tale un alimento deve essere conforme alle regole dall’inizio alla fine della produzione e questa è una garanzia».
Le norme da applicare sono tante. Di Segni fa un esempio. «Prendiamo un prodotto industriale semplice come le patatine fritte che dovrebbero contenere patate, olio e sale. Perché siano autorizzate bisogna stare attenti che non vengano impiegati oli di origine animale, neppure un residuo, durante l’intera fase. Può sembrare facile, ma per esempio un gelato industriale contiene almeno 100 ingredienti che devono essere tutti verificati dal personale rabbinico». E sono proprio questi controlli che fanno salire il prezzo del cibo. Anche perché, sostiene Di Segni, le forze in campo non sono tante. «Nel nostro Paese la domanda ci sarebbe, ma non possiamo arrivare ai livelli americani: siamo una comunità piccola e bisognerebbe avere troppe persone addette». La garanzia, insomma, è la galassia di regole che si trasformano in norme igieniche. E soprattutto la tracciabilità di ogni singolo alimento, quello che sta scritto su scatole e confezioni.
Oggi, per legge, deve essere sempre più chiaro, ma gli ebrei per motivi religiosi hanno sempre applicato la trasparenza alimentare.
«Prenda la carne», dice Alessandra Ouazzana. «Dopo “mucca pazza” era proibito consumare alcune parti degli animali, ma noi lo facevamo da sempre per motivi religiosi. Oppure, il cioccolato amaro. Anche in questo caso adesso è obbligatorio indicare che non contiene latte, ma per noi questa rassicurazione era necessaria anche prima». Alessandra gestisce assieme al marito Kosher delight, una catena di negozi a Roma, che offrono anche la possibilità di fare ordinazioni in tutta Italia via Internet. «Abbiamo molti clienti non ebrei. Sono sempre di più, per esempio, i bambini allergici al latte e ai suoi derivati; da noi si possono trovare infatti molti cibi che ne sono privi».
Visioni di export
Proprio l’aumento della richiesta, ma anche le potenzialità di esportazione di prodotti tipici negli Stati Uniti e in Israele hanno spinto l’assessorato all’Agricoltura del Lazio a siglare un accordo con la comunità ebraica per creare la prima filiera kosher. «C’è grande interesse da parte dei consumatori», dice Massimo Pallottini, presidente di Arsial (Agenzia regionale per lo sviluppo e l’innovazione dell’agricoltura del Lazio), «e c’è interesse anche da parte dei produttori che hanno intuito le possibilità di espansione sul mercato americano e israeliano. Per questo vogliamo essere presenti a New York, dove ogni anno si svolge il festival più grande del mondo dedicato a questo cibo, con uno stand». Ci saranno vino, olio, formaggi, prodotti di pasticceria. Tutti kosher.
«Di 80 aziende che si sono dimostrate interessate stiamo lavorando con 15, ma vogliamo che i numeri crescano». E nel potenziale del made in Italy che segue le prescrizioni della Torah crede anche Piha Meyer, coordinatore dell’IKU (Italy Kosher Union), ed editore dell’Italy Jewish Guide, che dà indicazioni su tutto: dagli hotel ai ristoranti kosher, dalle liste dei prodotti alle sinagoghe, dalle medicine alle agenzie di viaggio. Città per città. «Collaboriamo con le aziende che hanno necessità di una certificazione kosher e le richieste sono in aumento. Il mercato italiano deve ancora crescere, ma sono convinto che, prima o poi, quasi tutti i grandi marchi di qualità si doteranno di una certificazione kosher per proporsi sulla piazza per eccellenza, gli Stati Uniti».
(Pubblicato il 16 aprile 2008) |